Il nostro paesaggio aggredito: quarant’anni dal Pup
di WALTER MICHELI
C’è una foto che a buon diritto è entrata nei libri di storia dell’autonomia trentina. Ritrae Giuseppe Samonà, un maestro dell’urbanistica italiana del Novecento, mentre pone la sua firma sul progetto del piano urbanistico provinciale. E’ il 1967, esattamente quarant’anni fa. La nuova frontiera del centro sinistra dei primi anni Sessanta, altrove ormai irrimediabilmente inceppata, sembrò con quell’atto avere in Trentino ancora forza propulsiva, con progetti che divenivano realtà. Parve avverarsi qui l’auspicio di Adriano Olivetti, l’utopico e allo stesso tempo concreto programmatore di futuro e di comunità, che nel suo discorso agli urbanisti italiani del 1959 aveva parlato dell’urbanistica come di un piano che deve diventare “a poco a poco matrice di civiltà, un atto di amore verso il paesaggio e un atto di amore verso un gruppo di uomini“. Quella nuova carta di governo del territorio trentino fu intesa da molti come un coerente legame della modernità necessaria con l’antica tradizione di misura e di limite che aveva contraddistinto per secoli la vita nei villaggi e nelle valli trentine. Fu la scommessa di futuro, di sviluppo, di tenuta sociale e di equilibro, nella terra dei quattrocento paesi, dei trecento laghi, dei novanta ghiacciai.
Nel 1967 quel piano fu dunque progetto urbanistico, ma anche occasione di coinvolgimento diffuso e partecipato dei cittadini e momento impegnativo per la tutela dei siti più delicati del nostro territorio alpino con l’individuazione dei due parchi naturali di Paneveggio-Pale di San Martino e dell’Adamello-Brenta. Un obiettivo affidato sino ad allora al “fervore dei pochi”, come ricordato dal botanico trentino, e ricercatore ai quattro angoli del pianeta, Franco Pedrotti, nella sua storia del movimento protezionistico italiano.
Al destino delle nuove politiche del territorio in Trentino si appassionarono, intervenendo anche con grande vigore polemico, grandi uomini della cultura italiana: Giorgio Bassani, Antonio Cederna, Dino Buzzati, Paolo Monelli.
E però dopo solo quattordici anni da quella stagione di fervide proposte, Aldo Gorfer, l’uomo che più di altri, negli ultimi cinquant’anni, ha descritto il paesaggio e l’anima della terra trentina, era costretto a denunciare: “C’è un baratro incolmabile tra le città turistiche disancorate dall’ambiente e le culture locali, tra le città-motel, i villaggi-seconda residenza e i «centri» storici” della tradizione. Paghiamo la privatizzazione sistematica dei suoli, l’improvvisazione, l’assenza di storia, l’ignoranza della natura, l’analfabetismo ecologico. La rusticità è stata scacciata dai villaggi e dal paesaggio agrario. La civiltà urbana è stata scacciata dalle città.”
Ed Eugenio Turri, il grande geografo veneto, scomparso due anni fa, che ha rappresentato con amore e passione gli elementi ambientali della terra trentina, nell’ultimo suo incontro pubblico a Trento, nel 2001, denunciando il pericolo della megalopoli padana ormai incuneata nelle nostre valli alpine, ammoniva: “Se non ripensiamo il nostro futuro rischiamo di non leggere più la carta geografica per i suoi segni naturali, ma per l’ispessimento delle infrastrutture“. Moniti di uomini misurati nel gesto e nella parola.
E’ doveroso dunque chiedersi perché tutto questo è avvenuto e continua ad accadere, malgrado si affermino con le nuove leggi buoni propositi e concetti di tutela sempre più raffinati.
Un repertorio straordinario di conoscenza degli elementi ambientali del Trentino è alla base del piano urbanistico in vigore dal 1987, le 53 aree di tutela sono corredate da criteri dettagliati per conservare, tutelare, recuperare. E che recuperare è possibile lo dimostrano in Trentino il lago di Nembia rinato e l’acqua tornata a scorrere nel Sarca, le frane rinverdite, i tanti beni culturali restaurati, molti centri storici salvati dal degrado. Malgrado questo l’aggressione superba dell’uomo al territorio alpino, ha messo a repentaglio un patrimonio di civiltà. E diventa sempre più difficile leggere dietro ai muri, ai ballatoi, agli androni delle case, nelle chiese, nei cristi delle strade, nelle pietre dei campi i segni di una storia tormentata e diversificata come quella trentina.
E’ il triste approdo “all’uniformità del paesaggio” che ormai mina le valli trentine e che Aldo Gorfer aveva posto a titolo del suo intervento al convegno sul paesaggio promosso da Italia Nostra nel febbraio del 1992. E mentre per il Sud Tirolo Claudio Magris descrive innamorato il microcosmo di Anterselva e Pietro Citati si scaglia contro gli sfregi di Monguelfo e le sciatterie imposte all’armonia del paesaggio altoatesino, il paesaggio trentino sembra essere uscito dagli interessi degli uomini della cultura italiana. Uno stato di cose che fa riflettere, anche in termini autocritici, quanti nell’efficacia e nell’antidoto delle buone regole e delle buone leggi hanno creduto e dedicato risorse ed energie. Riflessione doverosa oggi che il progetto del nuovo piano urbanistico sta per imboccare la strada di una definitiva approvazione.
Allegata alla nuova proposta c’è la Carta del paesaggio trentino con un eccellente repertorio di linee guida per la tutela e conservazione dei beni paesaggistici e ambientali.
Ma ancora una volta, visti i risultati del passato, è doveroso chiedersi: “Le leggi ci sono, ma chi pon mano ad esse?”
Non è questo tema solo trentino. La questione è stata riaperta in modo incalzante su scala nazionale, dopo i propositi di valorizzazione turistica nella toscana Val d’Orcia, protetta dall’Unesco. Si è così riproposto il problema del rispetto dell’articolo 9 della Costituzione chiaro nella sua enunciazione: “la Repubblica tutela il paesaggio”, cioè Stato, regioni, enti locali, insieme, con un ruolo preminente dello Stato e per noi della Provincia autonoma. La constatazione amara del dibattito aperto è stata ancora una volta che scempi e compromissioni intollerabili del territorio sono avvenuti nell’ambito di una visione “angelicata” delle virtù degli enti locali.
Il mese scorso in un convegno di Legambiente lo stravolgimento del paesaggio italiano veniva denunciato come conseguenza di “un’occupazione di suoli senza precedenti nella storia che mette in discussione un patrimonio di bellezza, fatto di natura ed arte, di genio urbanistico e architettonico, che rischia di rimanere isolato in un mare di case, stabilimenti industriali, infrastrutture senza nessun criterio basati su un’idea vecchia e sbagliata di sviluppo”.
Guardando il fondovalle dell’Adige in Trentino, dove ormai la superficie occupata supera gli spazi liberi dalla piana Rotaliana a Rovereto, con le altre valli trentine che seguono e perseguono lo stesso modello e destino, non è possibile ignorare che quanto denunciato da Legambiente appartiene anche al nostro modo d’uso del pochissimo territorio disponibile. Le nuove infrastrutture sono spesso indifferenti ai caratteri del paesaggio attraversato e si sono trasformate in nuova occasione di urbanizzazione. In Trentino gli esempi di questo tipo sono decine: parallela alla strada più antica, su cui si era disposto il centro storico, ne è sorta una più larga, subito urbanizzata, e quindi una terza, ancora più larga, che è già oggetto di attrazione fatale per nuove costruzioni. I paesi si sono allargati a dismisura, si sono allungati lungo le nuove strade, perdendo l’identità e la nozione di centro.
Errori di tipo urbanistico e gestionale si sono sommati ad errori di tipo progettuale, perché la strada è stata considerata solo come un nastro e non come un fattore di trasformazione del paesaggio naturale e di creazione di nuovi paesaggi culturali. Le leggi, le regole, i criteri, la funzione degli organismi tecnici sono dunque importanti, ma risultano efficaci solo se riescono in breve tempo a diventare cultura condivisa. La sussidiarietà sempre invocata è utile se è accompagnata dalla solidarietà. Le migliori stagioni propulsive della nostra vicenda politica sono state accompagnate da un intenso dibattito sui destini dell’intero Trentino, mentre oggi troppe scelte si esauriscono nella rivendicazione di paese, di valle e di corporazione. Perché la Carta del paesaggio, che descrive gli elementi del territorio e ne dà le linee di tutela, possa avere credito ed efficacia, è dunque indispensabile che quella Carta e i suoi criteri guida diventino vincolanti per tutti i soggetti responsabili. Altrimenti sarà ineluttabile ripetere le amare esperienze del passato, con l’aggravante che ormai molte delle nostre risorse sono irrimediabilmente intaccate. Negli ultimi trent’anni in Trentino si sono fatti “patti” di ogni genere e tra i soggetti più svariati. Non sarà atto superfluo farne in modo convinto uno tra Provincia, comunità di valle e comuni, che riconosca valore non solo descrittivo ai contenuti di quel documento. Solo rendendo vincolanti i criteri di tutela si arginerà la febbre del cemento e si impedirà la distruttiva sommatoria delle rivendicazioni localistiche di 223 comuni. Il Trentino deve sperimentare nuove forme di produzione nell’agricoltura, nell’industria, nuove sicurezze nei rapporti fra le persone, nuove accoglienze, nuovi posti di lavoro, ma ha soprattutto bisogno di superare le deresponsabilizzazioni diffuse. In difetto si compirà anche qui quello “Scenario dell’inaccettabile” previsto qualche decennio fa da un gruppo di sociologi francesi: “La montagna alpina sarà (nel 2000) ancora densamente popolata, ma sarà una zona di passività e i montanari l’avranno abbandonata”.
Da più di un secolo, almeno dalla fondazione della Sat nel 1872, contro questa ipotesi si battono in Trentino uomini e donne impegnati ad illustrare, difendere e tutelare l’insieme degli elementi paesaggistici e culturali, patrimonio, identità e risorsa della comunità provinciale, ma più in generale bene universale dell’umanità. C’è una grande storia di impegno civile a cui si può far riferimento per aprire una nuova proficua stagione di regole e di cultura. Le parole dell’Inno al Trentino, scritte da Ernesta Battisti, nel 1911, quasi cent’anni fa, sono un’esaltazione degli elementi ambientali della terra di cui era divenuta fiera cittadina. Franco Pedrotti, quindici anni fa, nel ricordato convegno sul paesaggio promosso dalla sezione trentina di Italia Nostra, riprese in modo appassionato quelle parole: “La più grande sconfitta che potrà subire il Trentino sarà quella di vedere il suo volto completamente trasformato e urbanizzato, fino nei recessi più reconditi, nelle vallate più nascoste e ancora selvagge. E quando ciò sarà avvenuto, la nostra terra non sarà più la «gemma dell´Alpe», anche se continuerà a rimanere l’ «amato Trentino»”. È possibile evitare che questo accada.
WALTER MICHELI
fonte: Adige.it
le immagini utilizzate in questo post sono state scattate a Calliano e provengono dal photoblog Flickr di Portobeseno